mercoledì 14 gennaio 2015

Go down, Moses.

Inutile aspettarsi la storia di Mosè da Romeo Castellucci. Piuttosto l'esaltazione del concetto che il personaggio rappresentò e rappresenta tuttora: Mosè come speranza per il futuro, come passaggio dalla vita animale a quella umana, attraverso la macchina che trita le apparenze, forse Dio. Il velo di Maia steso sottilissimo innanzi al palco e sul quale passano versetti biblici alla fine è la tela del primo uomo (anzi della prima donna) che disegna se stessa scoprendo l'arte, vera natura umana disgelata e nuovo inizio. La separazione tra l'essere primitivo non razionale all'essere che chiede aiuto: l'uomo moderno. Fu generato davvero nello spettacolo il bambino Mosè? O era una rappresentazione di una anonima madre costretta a partorire in un fetido bagno e ad abbandonare in un cassonetto il nascituro? Questo è il legame da considerare: la disperazione assoluta, cosmica, dell'abbandono e della perdita vista oggi e nella pre-storia. Poco importa se il titolo richiama un gospel americano ché si rifà al versetto di Esodo 5:1 oppure se era un sogno/intrusione dimensionale di una malata che esegue la TAC. L'importante - come nella scena dell'interrogatorio al commissariato o nella sublime rivisitazione dell'alba dell'uomo - è che la madre stia in silenzio.

Go down, Moses di Romeo Castellucci
Teatro Argentina, dal 9 al 18 Gennaio 2014


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